giovedì 19 giugno 2008

Del viaggiare schematico, ovvero perché odio la geografia turistica. E perché in Ancona ti porto al Passetto a mangiare le crucete

In qualunque esame per l'abilitazione alle professioni turistiche che si rispetti, la parte del leone la fa sempre la geografia turistica. Ovvio: come puoi lavorare nel turismo se non sai dove sono (e cosa siano) Petra, o l'Angkor Vat, o Abu Simbel, o Machu Picchu? Mica tanto ovvio, per la verità: me lo ricordavo a memoria il giorno dell'esame, ora la memoria è un po' più arrugginita, specie se non tratto destinazioni internazionali.

Ho sempre amato la geografia: da piccolo, passavo ore a guardare il mappamondo, l'atlante, la cartina geografica. Mi piaceva scovare quei posti dai nomi esotici, immaginare le facce di chi ci viveva, sentirli pronunciare nei discorsi. Mi affascinava la Mongolia, persa laggiù in Asia, ma anche il Giappone, con tutte quelle città in un centimetro quadrato di mappamondo. E poi l'America, da Nord a Sud: guardavo le città del Brasile e mi immaginavo le spiagge calde quando da noi era inverno. Leggevo Bahìa e pensavo a come ne parlava José Carioca nei Tre Caballeros di Walt Disney.

Poi è venuta la geografia turistica. Con una passione del genere, non è difficile imparare tutti quei nomi. Il viaggio per me è sempre significato, tra le altre cose, mutare in qui-ed -ora qualcosa che era là-e-poi: essere a Sydney avendola sempre immaginata come lontanissima, quasi appartenente ad un'altra era, mi fa sentire un supereroe, che supera le barriere dello spazio e del tempo.

Eppure, c'è qualcosa nella geografia turistica che sottende il semplice nozionismo: la pretesa di rinchiudere in una categoria ben precisa quello che si deve fare, vedere, non perdere quando si è in un certo posto. Più che nozionismo, tassonomia: Asia -> Sud-Est asiatico -> Cambogia -> Angkor Vat; America -> Nord America -> Canada (o tour Usa-Canada) -> Niagara Falls.

Forse aveva senso cent'anni fa. Senza televisione, cinema, Internet, se andavi a Roma e non vedevi il Colosseo te l'eri perso, al massimo te la cavavi con qualche stampa. Lo raccontavi agli amici, tingendolo con particolari che solo tu eri riuscito a scorgere (ricorda - faceva dire il grande Ignazio Silone ad un cafone su Fontamara - quando sei a Nuova York, vai sulla quarantanovesima strada).

Oggi, tutto sommato, lo vedi in tv, al cinema, su Internet, nelle foto, nei video amatoriali, nei disegni... insomma, non rischi di perdertelo. Diventa semplicemente una categoria nella quale entrare per non sentirsi estranei alla massa che ne fa parte. Se sei stato a Roma, devi far parte di quelli che hanno visto il Colosseo (vale anche per l'Angkor Vat, Ground Zero, le cascate del Niagara ecc.). Se non ci vai, non la scampi: sei un alternativo (altra categoria massificata), perché deliberatamente scegli di non appartenere ad una categoria in quanto percepita di massa.

Altro è, a mio parere, capire cosa si vede, e tracciarne le direzioni maturando così l'abilità a tradurre la tradizione. Una tesi di laurea in Comunicazione credo si intitolasse così, mi pare parlasse della Sardegna e sono sempre stato curioso di leggerla. Lorenzo Cairoli, ad esempio, è molto abile in questo, in particolare quando parla del Piemonte: racconta, narra, trova i fili più nascosti e intesse le trame dei piatti, dei monumenti, delle tradizioni.

Questo dovrebbe saper fare un'ottima guida turistica (intesa sia come libro che -ancor più- come persona): rendere ogni monumento, piatto, costume e quant'altro non un obbligo perché va visto, assaggiato, fotografato, ma parte di una narrazione, un racconto del quale si è curiosi di vedere come va a finire.

Per esempio, se in Ancona (sì, per quanto possa sembrare strano o stonato, si dice in Ancona, leggiti Sorelle Materassi) ti porto a mangiare le crocette, non lo farò mai - se possibile - al ristorante. E ti assicuro, non perché così non è tipico. Della tipicità non me ne frega un beneamato: è solo un'altra etichetta, una categoria, devi farlo perché è tipico. Semplicemente perché - secondo me - lo spirito delle crucete, così come delle saraghine a scotadeti, è di mangiarle su un cartoccio davanti al Passetto, simbolo, con le sue grotte, di chi ha strappato un salotto alla roccia; simbolo dei pureti che hanno fatto le nozze coi fichi secchi, ma gli sono venute bene. E poi ti reciterò - o io, o magari un attore teatrale - le poesie che ti ho appena linkato.

Avrai capito lo spirito della città e sarai poi curioso di saperne di più. Molto più che leggendo una qualsiasi guida del touring o - peggio ancora - della Lonely Planet.

Nessun commento: